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La mancanza di un contratto, e dunque di un dovere di prestazione in merito al medico nei riguardi del proprio paziente, non è capace di neutralizzare la professionalità (secondo specifici criteri stabiliti dalla legge su quella persona), che contraddistingue "ab origine" l’attività di quest’ultimo, e che si presenta con obbligazioni di condotta nei riguardi di chi su siffatta attività si è affidato, entrando in "relazione" con lui.
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Proprio le peculiarità pubbliche, che caratterizzano siffatta professione, determinano il fatto che essa non possa non essere unica da parte del singolo medico, senza possibilità di distinzione rispetto al fatto che alla attività medica egli sia obbligato o meno a livello contrattuale.
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La sussistenza di un contratto è fondamentale soltanto per definire se il sanitario sia tenuto a svolgere la propria professione medica (eccetto le circostanze in cui siffatta prestazione è d’obbligo per legge, ad es. art. 593 c.p., cass. pen. 10.4.1978, n. 4003, soccardo). In mancanza di siffatte disposizioni, il paziente non potrà manifestare una pretesa in merito all’attività sanitaria dal medico, ma se il medico in qualsiasi circostanza presta (per esempio perché obbligato nei riguardi della struttura ospedaliera, come nella tipologia) la propria attività sanitaria (e dunque la relazione paziente-medico) la medesima non potrà essere diversa da quella prevista nel contratto tra paziente e medico.
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Da ciò deriva che la responsabilità di chi gestisce la struttura ospedaliera e quella del sanitario che vi lavora hanno ambedue origine nell’attuazione non diligente o sbagliata della terapia sanitaria da parte del sanitario, per cui, provata la medesima, analogamente viene provata la responsabilità contrattuale di ambedue (determinazione che deriva non dall’obbligo, ma dal contenuto della relazione). … - omissis - …”. “la delicata e particolare relazione che si determina tra la struttura di cura e il paziente (nella fattispecie: una partoriente), pure nella circostanza in cui quest’ultimo effettua la scelta del proprio medico di cura all’esterno dell’azienda ospedaliera, non è limitata alla semplice fornitura di servizi alberghieri (vitto e alloggio), ma inerisce la fornitura di sanitari e medici come pure nella somministrazione delle medicine e di tutte le apparecchiature necessarie, pure di fronte a possibili complicazioni; si determina quindi una responsabilità indipendente e diretta della struttura ospedaliera laddove il danno patito dal soggetto sia da ricondurre agli inadempimenti degli obblighi connessi alla medesima, senza la possibilità di evidenziare che la responsabilità relativa del medico di fiducia del paziente sia ancora sotto giudizio in altra distinta causa (nella fattispecie, l’inadempimento della struttura di cura ineriva la non efficienza dei macchinari presenti per poter prestare cure urgenti - sindrome asfittica del neonato - e nel fatto di aver ritardato, a causa dei medici ausiliari, il trasferimento del neonato in una struttura ospedaliero più attrezzata).” cass., sez. un., 01-07-2002, n. 9556. Zelo nell'adempienza ex artt. 1176 e 2236 c.c.
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Si è sostenuto, quindi, che la responsabilità del medico e della struttura ospedaliera hanno carattere contrattuale, coincidendo con quella tipica del professionista/prestatore d’opera intellettuale.
Detto questo, ci si deve per forza riferire solo allo zelo nell’adempienza degli obblighi di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c., allo scopo di determinare il livello di colpevolezza.
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Difatti, poiché si tratta di obblighi che riguardano la conduzione di prestazioni professionali, lo zelo nell'adempienza deve proporzionarsi, in merito all'art. 1176, ii° c., c.c., con riferimento al carattere della professione svolta, nel caso in cui, mentre, l’art. 2236 c.c. prevede che, se l’attività comporta la risoluzione di situazioni particolarmente difficili, il prestatore d'opera non è tenuto a rispondere dei danni, se non in circostanza dì dolo e colpa grave.
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Dunque, queste due normative arrivano ad evidenziare l’essenziale criterio secondo cui il livello di zelo va considerato in merito alla complessità dell’attività prestata. Per cui, la colpa coincide con la violazione della zelo prescritto nella fattispecie in questione.
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“homo eiusdem condicionis et professionis”, ovvero il cd. agente medio o campione che appartiene alla categoria cui si riferisce per ogni singola circostanza di specie, e in merito al c.d. agente medio o campione della nostra determinata fattispecie,
- si sarebbe avuta colpa grave se e quando il sanitario non avesse fornito neanche il minimo zelo (“magna negligentia, imprudentia, imperitia”); - si sarebbe avuta colpa media se e quando il medico non avesse fornito neanche un regolare zelo
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- si sarebbe avuta colpa lieve se e quando il medico non avesse fornito neanche una somma diligenza. È evidente che, l'obbligo preso dal professionista riguarda un obbligo di mezzi, ossia un’azione idonea a raggiungere uno specifico risultato.
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Quindi, il non raggiungere un esito non genera di per se stesso l’inadempienza (si faccia riferimento, per esempio, a cass. 26 febbraio 2003 n. 2836). Difatti, l'inadempienza - o imprecisa adempienza – si manifesta soltanto quando il sanitario abbia tenuto delle condotte non idonee allo zelo che gli veniva richiesto dalla fattispecie in questione, per cui il non aver raggiunto un risultato è considerato a livello eziologico estraneo alla determinazione della propria colpevolezza; esso potrà rappresentare soltanto un possibile danno connesso alla non zelante attività o alla omissione colpevole della prestazione medica.
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Divisione dell'onere probatorio. Questa questione è stata considerata precedentemente da moltissime disposizioni della cassazione, che hanno stabilito alcuni criteri in merito, tenendo sempre presente l’art. 1218 c.c. per cui la prova di non aver potuto osservare siffatto obbligo (senza “colpa”) è ad esclusivo carico del debitore.
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In merito a siffatte disposizioni di legittimità, in circostanza di facile attuazione della attività medica, la prova da parte del soggetto danneggiato della nascita o dell’aggravio di una malattia bastava di per sé ad evidenziare una presunzione connessa alla negligenza di quella medesima attività; ne derivava che il soggetto obbligato era tenuto a provare la sua prestazione diligente connessa all’obbligo sanitario e che il profilo patologico ex adverso presentatosi era da imputare solo a fatti improvvisi ed inattesi. (si tenga presente, per esempio, cass. 21 dicembre 1978, n. 6141; cass. 16 novembre 1988, n. 6220; 11 marzo 2002, n. 3492.). In effetti l'onere della prova venne così diviso tra le parti:
- al medico competeva accertare che la situazione era particolarmente complicata e, mentre, al paziente quali erano state le forme di attuazione inadeguate, o anche, “mutatis mutandis” - al paziente che la prestazione non era così complessa e al sanitario che la malattia e il suo aggravio non derivavano da una mancata diligenza (cass. 19 maggio 1999, n. 4852; cass. 4 febbraio 1998, n. 1127; cass. 30 maggio 1996, n. 5005; cass. 16 febbraio 2001, n. 2335; 16 novembre 1988, n. 6220).
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