La norma prescrive all’autorità giudiziaria di agire nel corso dell’indagine, pure d’ufficio, per fare in modo che le domande siano pertinenti, per assicurare l’autenticità delle risposte, la precisione dell’indagine e l’esattezza delle impugnazioni.
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Il ruolo invadente dell’autorità giudiziaria del giudice nel corso dell’indagine testimoniale era stato riconosciuto dalla legge considerato che nel 1999 ha cercato di intervenire per cambiare il secondo comma dell’art. 506 c.p.p., presumendo che il presidente può effettuare delle domande, ai testimoni, ai periti e ai soggetti in causa soltanto in seguito all’esame ed il controesame.
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Siffatta legge, tuttavia, nella prassi non si considera quasi mai principalmente perché non soggetta a sanzione. Capita spesso di trovarsi di fronte alla generica inclinazione dell’autorità giudiziaria di interporsi nel corso delle indagini incrociate, intromissione che pregiudica solitamente l’autenticità delle risposte portando fuori strada il soggetto interessato dall’obiettivo prefissato e smantellando, in alcuni casi, la strategia di accusa o di difesa.
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Tutte le motivazioni connesse al divieto di porre domande suggestive durante l’indagine (garantire l’autenticità dell’acquisizione delle prove) sono smantellate in un solo colpo dalla facoltà dell’autorità giudiziaria di fare domande senza nessuna limitazione.
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Non si può invocare, dunque, alcuna inutilizzabilità della prova, ex art. 191 c.p.p., se si considera che la materia degli artt. 498 e 499 c.p.p. non inerisce l’autorità “terza ed imparziale”. Le facoltà attribuite all’autorità giudiziaria in merito alla formulazione di domande, all’individuazione di nuovi e più estesi elementi di prova, necessari per portare a termine l’indagine (ex art. 506 c.p.p.) non si può ritenere soltanto come una finale operazione indirizzata a riempire i vuoti dell’indagine incrociata, previsto che il ii° comma del suddetto art. 506 c.p.p., dando facoltà al presidente di fare domande senza nessun vincolo, permette di stravolgere il criterio della costituzione per cui la prova si determina nel contraddittorio dei soggetti di fronte all’autorità giudiziaria terza ed imparziale.
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I soggetti nel corso della cross examination di solito devono sottostare senza poter fare nulla alla formulazione da parte del presidente del collegio di domande suggestive e in alcuni casi dannose perché cariche di rigidità che intimoriscono il testimone soprattutto nel caso in cui non si allinea alla tesi d’accusa, contro il criterio di presunzione di non colpevolezza.
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Ciò che maggiormente risulta distruggente è l’indagine del minorenne da parte del presidente o di un suo assistente nel caso in cui non si tengono ben presente le normative, pure non codificate, di massima tutela che l’età della persona in questione prescrive.
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Dunque, se da una parte la legge ha voluto tutelare il minorenne nella sua testimonianza, soprattutto nei reati sessuali e questo per impedire che si presentassero ulteriori effetti negativi a livello psicologico, dall’altra, il permettere domande che possono modificare e suggestionare il ricordo, determina un evidente deterrente che sicuramente compromette l’accertamento della prova.
Quindi, se realmente i criteri della “carta di noto” non possiedono alcuna legittimità, poiché si tratta di consigli che hanno lo scopo di assicurare la veridicità…. delle affermazioni del minorenne e la sua tutela a livello psicologico, è pur vero tuttavia che un’indagine del minorenne portata avanti dal presidente o da un proprio assistente deve comunque attenersi alle disposizioni degli artt. 498 e 499 c.p.p.. (3)
In effetti, l’art. 498 4° comma c.p.p. prevede che l’indagine testimoniale del minore è svolta dal presidente su domande e impugnazioni presentate dai soggetti in causa in maniera tale che il presidente viene considerato solo come la longa manus del soggetto che ha richiesto l’indagine del minorenne con l’effetto che lo stesso deve non permettere quelle domande che sono suggestive o che possono comprometterne l’autenticità.
Permettere al presidente o al suo assistente di procedere in maniera libera nel corso della testimonianza del minorenne non può che rappresentare una evidente modificazione della costruzione della prova.
Per schivare siffatta discrasia bisogna che muti e cambi completamente l’opinione di chi ancora adesso ritiene che il processo penale d’accusa nel nostro Paese è italiano è indirizzato più che ad un processo dei soggetti alla ricerca tormentosa di una verità; e fino a che nella nostra legislazione saranno tenuti presente gli artt. 506 2° comma e 507 c.p.p. sarà molto complicato cancellare le discrasie del sistema che generano una gravissima modificazione della ricostruzione della prova.
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